«Quel giorno più non vi leggemmo avante». È quando le parole si spezzano che inizia la vita.
- francescopetronzio
- 25 mar 2021
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Il 25 marzo del 1300 è indetto il tanto atteso giorno del giudizio, che Dante anticipa, riservando per sé la facoltà di decidere quali anime spingere verso il baratro, quali innalzare al cielo e quali rimandare a settembre. Insomma, un po’ Padreterno, un po’ docente di scuola, nel mezzo si colloca il sommo poeta fiorentino. Nessuno è risparmiato, tutti coloro che sono morti nel momento che Dante scrive sono sotto accusa, mentre quelli che sono ancora vivi tirano un sospiro di sollievo, se hanno la coscienza sporca o un conto in sospeso con il Poeta. Questi, agendo da arbitro ineludibilmente super partes, prende in blocco tutti i suoi nemici e li scaglia ognuno nel girone che gli spetta, condannandoli alla sofferenza eterna. È celebre il caso di papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, reo di aver favorito l’ascesa a Firenze dei Guelfi neri, e di conseguenza la condanna all’esilio per Dante stesso. Morto nel 1303, il suo posto all’Inferno tra i simoniaci è prenotato con cura dal Poeta, che usa come pretesto la sua controversa elezione al soglio pontificio. L’odio nei confronti del papa è talmente forte che neanche al suo predecessore, Celestino V – colui che fece per viltade il gran rifiuto – viene risparmiato un viaggio di sola andata verso l’Inferno, anzi, verso l’Antinferno, perché coloro che non seppero prendere una posizione non sono degni neanche di Sàtana. Egli, infatti, paga profumatamente la scelta di rinunciare al trono per cui era stato designato, favorendo inconsapevolmente l’elezione di Bonifacio VIII. Che la Chiesa Cattolica abbia poi canonizzato sia l’uno sia l’altro, sbugiardando ingenerosamente Dante, è solo un dettaglio che dimostra l’imparzialità della scelta.
Le anime residenti all’Inferno sono dannate, hanno peccato e ora subiscono per contrappasso una pena inerente alla colpa che ha procurato loro una vacanza a tempo indeterminato nel Regno di Lucifero. E Dante da dannate le tratta, guardandole dall’alto della sua autocelebrata integrità morale, non senza il dovuto disprezzo. In tutto il viaggio ultraterreno della prima cantica, Dante non fa eccezioni per nessun’anima, ma in un caso particolare arriva addirittura a provare pietà: siamo nel secondo cerchio, quello dei lussuriosi.
Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l’intrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata

Nell’incipit del canto V Dante e Virgilio si staccano dal primo cerchio (Limbo) e scendono nel secondo, imbattendosi in Minosse, che indica alle anime il cerchio verso cui devono dirigersi, in base al numero di avvolgimenti della sua coda, dopo che queste hanno confessato il proprio peccato.
«O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti fide; non t’inganni l'ampiezza de l’intrare!». E ‘l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare».
Alle resistenze di Minosse nei confronti del passaggio di Dante, non anima ma uomo vivo, risponde Virgilio, utilizzando per la seconda (e ultima) volta nel poema la celebre ammonizione «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare», già usata nei confronti di Caronte, a indicare un lasciapassare voluto dall’alto.
Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote.
Dante inserisce qui un’altra frase idiomatica, e preannuncia che, a vedere le anime condannate per aver amato nel modo sbagliato, non riuscirà a trattenere le lacrime. Nell’ordine incontrerà Semiramide, Didone, Elena di Troia, Achille, Paride e Tristano, prima di imbattersi in due anime abbracciate che scontano insieme la propria pena. Queste suscitano la curiosità di Dante, che prima chiede informazioni a Virgilio, e poi chiede loro di avvicinarsi a lui per parlare.
Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: «O anime affannate, venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, sì forte fu l’affettüoso grido.
Già dal linguaggio utilizzato in questo passo (i dannati sono equiparati a colombe, che, spostandosi dal loro dolce nido, volano attraverso l’aere maligno, che, come la contrapposizione suggerisce, non appartiene al loro stato abituale) possiamo ben comprendere come Dante usi un trattamento particolare per queste due anime alle quali, essendosi guadagnate l’Inferno a causa di un amore adulterino, è riservata una sofferenza minore, alleviata anche dalla loro unione che permane anche nel regno ultraterreno.
«O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l’aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
A parlare sono Paolo Malatesta e Francesca da Rimini (in realtà è quest’ultima che si rivolge a Dante anche a nome dell’amante), che si accorgono della pietà provata nei propri confronti dal viandante, per cui pregherebbero Dio, se fosse loro amico – ipotesi impossibile dato che sono all’Inferno – affinché lo benedica.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m'offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte.

Il passo più celebre e commovente dell’intera Commedia è proferito da Francesca, e ogni parola spesa a commentarlo sarebbe vana e limitante. Attraverso questo incredibile poliptoto è definito un amore talmente intenso che preclude a ogni mortale che ne è trafitto ogni possibilità di non ricambiarlo: non c’è via di scampo, il libero arbitrio dell’umano si neutralizza di fronte a un sentimento tanto penetrante che dev’essere accolto senza condizioni, che nasce ma non muore, restando indenne anche di fronte alla morte, che non muta neppure di fronte alla morte, che è una per entrambi, perché entrambi, insieme, sono un’anima sola (perciò nel verso Amor condusse noi ad una morte l’elemento su cui cade l’accento è una). Una sorte ben peggiore toccherà a chi ha spento le loro vite mortali: il traditore è Gianciotto Malatesta, cui è destinata la Caina, ossia il legittimo sposo di Francesca, nonché fratello di Paolo. In otto versi, un’anafora e un poliptoto si consuma il ribaltamento di tutte le logiche umane: il tradito diventa traditore, i traditori vengono assolti dal loro amore che è un evento ineluttabile, eppure si trovano all’Inferno fra i lussuriosi, perché la loro colpa è giustificata, ma non sanata. Della contraddizione più grande dell’intera letteratura italiana sono protagonisti due personaggi che, se non fosse per Dante, sarebbero sconosciuti ai più; ma non è un “amore normale”, come lo definisce De André nella canzone Al ballo mascherato, bensì può essere considerato come un esempio fra i tanti preso da Dante per esprimere un concetto tanto intricato quanto limpido, tanto contraddittorio quanto tangibile.
Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Francesca racconta a Dante la genesi dell’amore sbocciato fra lei e Paolo, attribuendone le colpe a un libro che narrava la storia infelice dell’eroe arturiano Lancillotto e Ginevra, descrivendone ogni sensazione visiva e tattiva. Galeotto, nome entrato poi come antonomasia nella lingua d'oggi, non ha nulla a che fare col senso più immediato che ci salta in mente, ovvero quello collegato al lessico carcerario, bensì è l'intermediario amoroso, il sensale che favorì l'amore clandestino fra Ginevra e Lancillotto: in questo caso il ruolo viene assolto dal "libro" che narra questa storia e dal suo autore.
Mentre Francesca parla - fra l'altro questo è un unicum di voce femminile nell'Inferno - Paolo piange, e Dante, ammettendo la sua pietà nei confronti dei due, perde i sensi.
Tutti hanno recitato questo canto: Vittorio Gassman, Arnoldo Foà e Roberto Benigni ne hanno dato interpretazioni magistrali, da alieni della voce e del teatro quali sono. I quindici minuti da spendere almeno una volta nella vita sono, a mio avviso, quelli con cui Gassman riesce eccellentemente a far penetrare le parole di Dante negli anfratti più remoti dell’anima di ogni essere umano. Lascio il link in fondo alla pagina.
Ma la ricchezza di Dante non sta solo qui, come si è già detto in questa pagina e in quella che la precede, il sommo poeta merita l’epiteto con cui è ricordato per il tesoro incommensurabile a cui ogni nostra sillaba ogni giorno attinge, per cui è sempre Dantedì quando un italiano parla.
P.S. se sei arrivato/a fin qui senza chiudere la pagina, allora vuol dire che ciò che ti ho appena raccontato almeno un po’ ti è piaciuto. Perciò ti chiedo di cliccare sul cuore in basso a destra e, se vuoi approfondire qualche passaggio o proporre qualcosa di diverso, o esprimermi il tuo giudizio, ti invito a non essere timida/o e a farmelo sapere nei commenti.
(Se non lo fai, sei un guelfo nero o un lontano nipote di Bonifacio VIII 🙄)
Vittorio Gassman illustra e legge il Canto V dell'Inferno: https://www.youtube.com/watch?v=Xf4oNvuJ2mo
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