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Faber Nostrum, fra azzardi e piacevoli sorprese

  • Immagine del redattore: francescopetronzio
    francescopetronzio
  • 4 apr 2021
  • Tempo di lettura: 9 min


– No, aspetta, fermate il gioco. Sally di?

– Gazzelle!

– Mi sanguinano le orecchie.

– Ma perché scusa?

– L’ha cantata Gazzelle, bella la sua versione, ma è di De André!

– Ah. Davvero?


Non diverso è il disagio di chi attribuisce Geordie a Gabri Ponte, Dio è morto a Fiorella Mannoia e via dicendo.

La versione del brano deandreiano cantata dall’indie romano, traccia numero uno dell’album Faber Nostrum, è passata in radio e sui social ed è arrivata a tutti, perché è ben eseguita, ben arrangiata e soprattutto si tratta di un brano di spessore, come d’altronde la quasi totalità del repertorio del cantautore genovese.


Nell’aprile 2019 diversi cantanti e gruppi indie, indie rock e indie pop hanno deciso di celebrare un colosso del cantautorato italiano, Fabrizio De André, incidendo quindici cover di quindici canzoni scelte dell’indimenticato Faber, a vent’anni dalla prematura scomparsa. Ma se l’idea di omaggiare il grande cantante è stata indubbiamente lodevole, alcune scelte musicali e interpretative non hanno convinto. Reinterpretare De André non è certamente un gioco da pischelli, e lo sa bene Colapesce, uno degli artisti che ha collaborato al progetto, che dichiara: «Le canzoni di Fabrizio sono di tutti, si riflettono nella vita di tutti. Parlano a tutti. E noi che le eseguiamo, quando le eseguiamo, diventiamo dei tramiti. Per cui sì, mi scuso con i fan, la famiglia, e tutti, io odio chi fa le cover di De André. E da oggi odio un po' anche me stesso. Ma in realtà sono felice di averlo fatto e di averlo fatto ora.»


Come dargli torto, anch’io odio chi fa le cover di De André, salvo rarissimi casi come la PFM, Battiato o Mina (senza la quale, d’altronde, il successo di Faber sarebbe arrivato molto più tardi). Già Cristiano, suo figlio, ha tentato di imitare l’insigne padre con risultati non certo da far saltare dalla sedia. Il punto più basso si è raggiunto il 16 novembre 2019, in occasione di una trasmissione televisiva di RaiUno in memoria di De André: ogni esibizione è stata una pugnalata all’anima di Faber, ma il colpo di grazia fu quello dato nientedimeno che dalla grande Ornella Vanoni con l’interpretazione disastrosa di Bocca di Rosa, durante la quale pronunciò un «Non si vede un cazzo», che rientrava in metrica col ritmo della canzone, per giustificare gli strafalcioni testuali evidenti con la troppa luce che non permetteva la lettura del gobbo (come se a un’artista di cotanta fama fosse necessario leggere il gobbo per conoscere il testo di Bocca di Rosa…).


Dopo aver steso un velo pietoso, torniamo a noi, e a Faber Nostrum, di cui spenderò alcune parole riguardo le scelte e le interpretazioni degli artisti che si sono cimentati nell’ardua impresa.


PROMOSSE


Sally, Gazzelle: la scelta del cantautore romano ha convinto, perché Sally è pienamente in linea con la sua poetica e il suo modo di cantare. L’interpretazione a mio parere lascia ben poco al desiderio: oltre ad averla ben eseguita, Gazzelle è riuscito a entrare nell’anima della storia di quel bambino che si stacca dalle imposizioni della madre, si interessa al diverso (dagli zingari alle prostitute alla droga) senza pregiudizi, e incontra l’amore, che lo porterà, ormai uomo, ad andarsene in compagnia di un “pesciolino cieco”. Il successo di questa versione non è limitato al mio umile giudizio personale, ma è consolidato dai numerosi passaggi radiofonici che hanno permesso a una fetta di opinione pubblica di associare la canzone a Gazzelle, non sapendo che fosse di De André, perché Gazzelle l’ha cantata come se fosse sua, ed è riuscito a portare a casa la vittoria.


Inverno, Ministri: confesso che prima di questa cover non avevo minimamente idea di chi fosse questo gruppo dal nome politicheggiante. Per fortuna la mia ignoranza è stata curata da Wikipedia. Inverno, una canzone lenta e ridondante, dal ritmo incalzante e ripetitivo, ma dal significato positivo e ottimista (“Rifioriranno le gioie passate col vento caldo di un’altra estate”): la metafora inverno/momento negativo, estate/momento positivo è quella della vita, più realistica che ottimistica, a simboleggiare il continuo susseguirsi di gioie e dolori, e l’invito a non scoraggiarsi di fronte alle delusioni si scontrano con il ritmo, come si è già detto, allo stesso modo (ma opposto) rispetto ad esempio ad Andrea e Fiume Sand Creek (su cui torneremo più avanti). Ma veniamo agli amici Ministri: una piena sufficienza, malgrado alcuni passaggi un po’ troppo alti e “allegri”, insomma, un po’ di entusiasmo ci può stare in una canzone dal testo comunque felice e bene augurante, ma sarebbe stato sufficiente anche meno.


Canzone per l’estate, Cimini feat. Lo stato sociale: per quanto riguarda Cimini vedi quanto testé scritto circa i Ministri. Non me ne vogliano, ma la mia ignoranza è vasta e faccio il mio meglio per rimediare. Per quanto riguarda Lo stato sociale scelta è senz’altro azzeccata e l’interpretazione nel complesso mi ha convinto, anche se la canzone è stata melodicamente un po’ stravolta il senso rimane, e la variazione non sa di azzardo.


Canzone dell’amore perduto, Colapesce: prima di incontrare Dimartino, il cantautore siciliano godeva di un’autonomia artistica che gli permetteva di non essere ripetutamente confuso con qualcun altro. Siamo decisamente lontani dalla Musica leggerissima che ha invaso i social network nelle due settimane successive all’ultimo Festival di Sanremo, e siamo di fronte a una delle canzoni oggettivamente più emozionanti e celebri del cantautore genovese. E Colapesce l’ha eseguita bene, che è già un traguardo per un brano così delicato. Nulla di eclatante, ma è proprio qui la vittoria.


Hotel Supramonte, The Zen Circus: uno dei brani più delicati, poiché il più autobiografico dell’intera discografia deandreiana. Il testo è legato a doppio filo a Fabrizio e a sua moglie Dori, rapiti dall’Anonima Sequestri nel 1979 per quattro mesi. De André riesce a vedere ciò che di positivo c’è stato in un’esperienza che di positivo nulla ha avuto, e può farlo solo grazie all’amore di Dori, quello stesso amore che invece i sequestratori hanno perso (“Ma dove, dov’è il tuo amore?”). Il gruppo pisano è riuscito a dar vita a una versione del brano che non imita, non si permette di sostituirsi all’insostituibile voce di un narratore interno, ma compie l’impresa di trovare la giusta compassione (cum pathos), ossia chi canta dà a chi ascolta l’impressione visiva di trovarsi seduto vicino ai protagonisti, abbracciato a chi ha narrato, e di entrare nel loro cuore, cantando al loro posto per dimostrare la sua comprensione. Il tono rimane triste, la musica non viene cambiata, la melodia si sposa alla perfezione con la voce di Appino. Ottima scelta.


Rimini, Fadi: una delle rivelazioni migliori dell’album. Voce penetrante, calda, soave, perfetta per un brano con la profondità di Rimini. Leggermente triste, tratta di un argomento molto scottante, soprattutto al tempo (1978) ma anche estremamente attuale (sfido chiunque a trovare una canzone di De André che possa essere considerata un fossile vecchio e sepolto) come l’aborto di una ragazza dopo l’abbandono del padre. Fadi ha messo la giusta impronta, riuscendo a smuovere perfino le anime di chi ha amato quel celebre filmato di Faber in compagnia di un gruppo di amici, fiancheggiato dalla moglie Dori e bucato dai suoi sguardi estasiati.



BOCCIATE


Il bombarolo, Willie Peyote: ha cambiato il testo, e questo già basterebbe a condannarlo per direttissima. È innovativo, traspone la denuncia al giorno d’oggi con argomenti attuali, sicuramente, ma non si transige sui testi di De André, mi dispiace. Okay che gli piaceva il tema della canzone, ma sembra che il buon Willie (che continua a godere della mia stima per la sua schiettezza dimostrata nei giudizi a Renga nel post-Sanremo, ndr) abbia scelto più per il contenuto che per l’aderenza al proprio stile. Il bombarolo non è un brano rap, non è rappabile e non è modificabile. Mi dispiace, ma con questa violenta interpretazione Willie Peyote è sceso al livello della Don Raffaè di Clementino. E caddi come corpo morto cade.


Verranno a chiederti del nostro amore, Motta: nessun errore, non ha cambiato né il testo né la melodia, un’interpretazione regolare, quasi un’esibizione per emulazione, che non è di per sé un male, anzi. La metto all’inferno - non me ne voglia il buon Motta - perché non mi ha trasmesso emozioni, una fra le mie canzoni preferite in assoluto che mi è entrata dentro in simbiosi con la voce di De André e forse non rientrerà mai con una voce diversa. Giudizio puramente soggettivo, ma a differenza di Colapesce - che ha fatto un’interpretazione simile ma è riuscito, vuoi per impegno, vuoi per impostazione vocale - risulta decisamente più “vuota”. Da apprezzare comunque la scelta di non stravolgere la canzone.


Cantico dei drogati, Artù: discorso simile a quello di Motta. Artù ha praticamente sostituito la sua voce a quella di De André, salvo qualche aggiunta di acuti, in un’interpretazione tutto sommato buona, che rispecchia abbastanza il messaggio del brano. Feedback personale: questa canzone prevede un altro tipo di voce. Come per Motta, si apprezza la decisione di mantenere inalterato tutto, ma non basta. Non è colpa di Artù, che ha una bella voce ma, per quello che è il mio pensiero, adatta ad altre canzoni.


Amore che vieni, amore che vai, Ex-Otago: quando si sceglie un brano del genere il rischio è sempre alto, perché hai i riflettori puntati su ogni minimo errore. Che poi errori veri e propri non ne ho trovati, salvo che non andava adattata al ritmo comune alle altre canzoni degli Ex-Otago. Quando omaggi De André sei tu che ti adatti a lui, non lui a te. Come per Willie Peyote, ma almeno loro non hanno cambiato il testo. Fine.


Fiume Sand Creek, Pinguini Tattici Nucleari: colpo di scena, sanno steccare anche loro. Per quanto De André sia abile a far sembrare allegre canzoni dal testo impegnato e ben poco felice, Fiume Sand Creek narra di un eccidio, di una tremenda strage di bambini indiani d’America nel 1864. La sensibilità di Faber di inserire una storia così macabra all’interno di note gradevoli non giustifica l’eccesso di entusiasmo. Adoro i PTN, amo Riccardo e la sua abilità nel comporre i testi e nell’eseguirli, ma quest’allegria cozza con il tema della canzone.


LIMBO


Il suonatore Jones, Canova: è l’unico brano estrapolabile dal concept album Non al denaro non all’amore né al cielo, tanto che questa strada fu intrapresa anche da colei-che-tutto-può, Dori Ghezzi, che sappiamo godere di speciali privilegi. Certo, costituisce la conclusione del fil rouge della storia dell’album (il quale, ricordo, prende spunto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters) ma fa pur sempre parte del racconto, per cui la si avelle – così come La collina – ma comunque attraverso una deroga e prestando attenzione. Nella versione dei Canova si avverte il tema originale, arricchito da intermezzi strumentali pertinenti e accettabili. Tuttavia, resta sul filo, tra color che son sospesi, perché trasmette, ma senza esagerare. La scelta resta comunque un pelo azzardata, per i motivi legati alla continuità del racconto, e non mi convince il fatto di sentir parlare di Jones il suonatore (per certi versi riassunto, testamento e dichiarazione di poetica di De André) nel mezzo di un ascolto di brani posti in ordine casuale, dopo Il bombarolo e prima di Canzone per l’estate. È una scelta editoriale in cui poco c’entrano i Canova, ma già se fosse stata posta in coda avrebbe avuto un effetto diverso.


Se ti tagliassero a pezzetti, The Leading Guy: il cantautore veneto si cimenta nella lingua italiana, mai adoperata nei suoi brani a vantaggio dell’inglese, per celebrare il grande De André, e ne esce una interpretazione tutto sommato buona, ben armonizzata, ben cantata e ben presentata. Scioglie finalmente la censura, che castrava il testo del suo succo, perché l’anarchia è la dedicataria della canzone, e per questo è da lodare, ma dopo averla ascoltata decine e decine di volte non riesce a entrarmi dentro il testo, a discapito del ritmo incalzante e orecchiabile. E il testo non è di poco conto, soprattutto se si tratta di un elogio dell’anarchia. Opinione personale. Comunque più vicina al Paradiso che all’Inferno.


La canzone di Marinella, La Municipàl: questo caso mi ha perplesso molto e continua a perplimermi tuttora. La doppia voce femminile e maschile ricorda inquietantemente il celeberrimo duetto Mina-De André: dico inquietantemente perché – senza nulla togliere al duo salentino – il voler sembrare Mina rimembra il peccato di Lucifero che voleva sembrare Dio, con l’epilogo che tutti conosciamo. Certo, tutti gli artisti dell’album si prestano al paragone con De André, com’è naturale che sia, ma in questo caso il riferimento è troppo preciso e troppo univoco per passare inosservato. Non va all’Inferno come Lucifero perché non se lo merita, l’interpretazione è stata comunque buona e «senza pretese di voler strafare»; non va in Paradiso perché l’analogia è azzardata e non lambisce nemmeno l’originale.


Smisurata preghiera, Vasco Brondi: la musica in questo brano ha un mero ruolo di accompagnamento al testo, che è come recitato, più che cantato. L’ormai ex frontman de Le luci della centrale elettrica ha recitato, e diversamente non poteva fare per evitare di finire sui carboni ardenti. Non è un brano facile né da capire né da ascoltare, suonando ora come una lettera, ora come una denuncia, ora come una preghiera (Smisurata preghiera, per l’appunto), né tantomeno da interpretare con la giusta intonazione e la stessa trasmissione. Non possiamo sindacare l’interpretazione di Brondi – che ha scelto il brano contenente il celebre passaggio «Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria», una dichiarazione del destinatario dell’intero repertorio deandreiano, il quale deve somigliare a lui stesso – ma non entra abbastanza dentro. Entra ma poco dopo si ritrae, per poi rientrare e di nuovo tirarsi indietro. Come quella di The Leading Guy, quest’interpretazione è più vicina alla gloria che all’infamia, ma resta comunque in un regno intermedio.



Il bilancio è tutto sommato positivo: fra alti e bassi (e alcuni bassissimi) non mancano interpretazioni magistrali ma nemmeno violenze. Non è semplice scegliere quindici canzoni in un repertorio vastissimo come quello di De André, e forse ognuno di noi avrebbe compiuto una diversa selezione: mi sarebbe piaciuto riascoltare Giugno ’73, La canzone del padre, Bocca di rosa o Dolcenera, ma non si può avere tutto. Nonostante ciò, va riconosciuto e ringraziato l’impegno di chi ha deciso di non far passare inosservato il ventennale dalla morte di Faber, dando prova del fatto che il passato illustre non viene mai dimenticato, anzi, non smette mai di essere attuale.



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