Super League: è la morte del calcio o l’unica àncora di salvezza?
- francescopetronzio
- 20 apr 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Nella notte di lunedì 19 aprile dodici top club europei hanno annunciato la nascita della Super League, una nuova competizione a organizzazione privata, creata come protesta contro FIFA e UEFA e dunque slegata da esse. Il campo di battaglia fra i club dissidenti e gli organismi ufficiali è quello della ripartizione dei diritti. Problema economico, dunque. La domanda che sorge è: perché questi dodici club, fra i più blasonati e ricchi d’Europa, hanno sentito il bisogno di costituire una lega parallela per motivazioni economiche?

La UEFA Champions League prevede un “premio” di 15.25 milioni di euro ai 32 club qualificati alla fase a gironi, più ulteriori 9.5 milioni in caso di qualificazione agli ottavi di finale, 10.5 per i quarti di finale, 12 milioni a chi si qualifica per le semifinali, 15 milioni alle finaliste e ulteriori 4 alla vincente. Inoltre, per ogni vittoria la UEFA paga 2.7 milioni di euro a ciascuna società, e 900.000 euro per ogni pareggio. In più, la vincente della Champions League, qualificandosi di diritto per la UEFA Super Cup, riceve ulteriori 3.5 milioni di euro, e un altro milione se risulta vincitrice. Per fare un esempio, al Bayern Monaco (che non fa parte delle dodici), che nella scorsa stagione ha vinto sia UEFA Champions League che UEFA Super Cup, sono stati corrisposti in totale 100.45 milioni di euro (da cui sono esclusi gli introiti provenienti dalla vendita dei biglietti, azzerati nell’ultimo periodo dal Covid, ma solitamente ingenti).

Non tutti i club riescono a vincere la competizione, ma le cifre sono comunque importanti. Tuttavia, evidentemente non bastano. Il motivo è semplice, i grandi club sono indebitati fino al collo, lo erano prima della pandemia e ora lo sono ancora di più. Per fare un esempio, a fine anno il bilancio del Real Madrid vedrà un rosso di 91 milioni di euro; il 20 gennaio 2021 il quotidiano Marca spiattellava in prima pagina i debiti del Barcellona: 1.2 miliardi di euro. In Italia la situazione è meno critica, tuttavia la Juventus al 30 giugno 2020 presentava un debito pari a 385 milioni di euro, l’Inter di 244 milioni (374 se si considerano i prestiti da Suning), il Milan di 103, senza considerare le società che non hanno aderito alla Super League. L’unico top club italiano ad avere il bilancio in positivo è il Napoli che registra un +124 milioni, con zero debiti finanziari.
A qualcuno potrebbe suscitare stupore constatare che le società più ricche hanno una situazione finanziaria ben peggiore di quelle “povere” e “medio-povere”, ma in realtà non è difficile ricondurre le cause di questa crisi profonda alle spese pazze che, soprattutto negli ultimi anni, vengono effettuate per cartellini e stipendi dei calciatori. Cristiano Ronaldo percepisce dalla Juventus la modesta cifra di 31 milioni di euro netti annui (che comportano un esborso lordo di 54 milioni alla società); il suo rivale Lionel Messi, così come rivelato da El Mundo, ha percepito nel periodo 2017-2021 più di 555 milioni di euro lordi, pari a un impegno da parte del Barcellona di circa 139 milioni di euro a stagione. L’asso argentino ha poi ricevuto ulteriori 195 milioni di euro come premio fedeltà e premio rinnovo.
L’emergenza Covid ha rovinato i club europei di spicco? Vero, ma in parte. Lungi da discorsi moralistici, il calcio muove cifre di denaro astronomiche, forse esagerate. Certo, il merchandising e la visibilità costituiscono, per le società che annoverano fra i propri tesserati Messi, CR7, Neymar o Mbappé, un’entrata economica che va parzialmente a sanare le uscite per i loro ingaggi, ma non è un gioco indistruttibile. E infatti si è rotto, perché la pandemia ha acuito le difficoltà privando i club di introiti fondamentali come abbonamenti, biglietti, abbassando i proventi dal merchandising ufficiale e dagli sponsor, soprattutto nel periodo in cui il calcio era fermo.
La certezza che abbiamo oggi è che il calcio si è rovinato, non è più uno sport ma un business, non è una passione ma un complesso marchingegno economico per cui il tifoso è un più sul bilancio e un calciatore è contemporaneamente un meno, per quanto concerne ingaggio, bonus e cartellino, e un più per diritti d’immagine, merchandising, attrazione mediatica. Dopo la notizia bomba della nascita della Super League, e la conseguente minaccia della UEFA di proibire ai club dissidenti di partecipare ai campionati delle proprie nazioni e ai calciatori di essere convocati per le nazionali di appartenenza, per il calciofilo medio si è aperto uno scenario raccapricciante, quello di una Serie A senza Inter, Milan e Juventus, di una Premier League senza Arsenal, Chelsea, Liverpool, Manchester United, Manchester City e Tottenham Hotspur, di una Liga priva di Barcellona e Real Madrid, Atletico Madrid, di un Mondiale senza Messi, CR7, Barella, Neymar, Foden, De Ligt, De Jong, Van Dijk e via dicendo, per cui è stato portato a pensare che il calcio si è rovinato, è stato sovrastato dagli interessi economici e perciò è finito.
La reazione a caldo è incontestabile, ma a mente lucida è chiaro che il calcio era già rovinato prima del roboante annuncio di lunedì notte. La Super League, paradossalmente, è l’unico antidoto possibile contro il fallimento di questi colossi calcistici: abbiamo parlato delle cifre che orbitano intorno alla Champions League, per cui il club vincitore può arrivare a percepire fino a 100 milioni di euro. Bene, la Super League – sponsorizzata da JP Morgan, colosso bancario statunitense – consegna a ciascun club un “premio” d’accesso dai 250 ai 300 milioni di euro. Inoltre, i quindici club (12+3 da definire) fondatori non sono vincolati all’incertezza della qualificazione, e perciò percepiranno i compensi annualmente. Di che compensi si parla? JP Morgan ha annunciato un contributo pari a 10 miliardi di euro “durante il corso del periodo iniziale di impegno dei club”, quindi un tempo ancora non ben precisato, ma in ogni caso i proventi derivanti da diritti televisivi, biglietti e sponsorizzazioni saranno divisi in 20 società (non si sa ancora se le altre cinque parteciperanno equamente agli introiti) e non più 32. Quest’ultimo è un altro tema caldo ai fondatori della Super League, presieduta da Florentino Pérez, che considerano la partecipazione di club minori alla Champions League un inutile spreco di denaro.

Arriviamo alla componente etica. La Super League ha indignato calciatori, allenatori e tifosi. Jürgen Klopp – tecnico del Liverpool – si è dichiarato disposto a dimettersi nel caso in cui la propria società decidesse concretamente di partecipare alla nuova competizione, il centrocampista del Manchester United Bruno Fernandes e l’esterno del City João Cancelo hanno espresso il suo dissenso sostenendo che “i sogni non sono in vendita”. Reazioni durissime sono arrivate anche da vecchie glorie come Rio Ferdinand, Gary Neville e Rudi Völler. La tifoseria del Liverpool – una delle più calde del mondo, che prima di ogni gara sostiene i suoi pupilli intonando il celebre inno “You’ll never walk alone” – ha esposto polemicamente fuori dallo stadio di Anfield due striscioni, il primo recita: “Shame on you. R.I.P. LFC 1892-2021” (Vergognatevi. Riposa in pace Liverpool F.C. 1892-2021), il secondo: “LFC fans against European Super League” (I tifosi del Liverpool F.C. sono contrari alla Super League europea).
Che dire di squadre come l’Atalanta, capace nel 2020 di espugnare Anfield, o della Roma, che nel 2018 si è resa protagonista di una rimonta folle contro il Barcellona, ma anche del miracolo Leicester, che nel 2016 ha battuto tutte le big inglesi aggiudicandosi il titolo nazionale? Se la UEFA e la FIFA confermeranno le sanzioni sportive annunciate, possiamo dimenticarci per sempre dell’emozione di quelle piccole squadre capaci di battere i grandi, ma anche di quelle che contro le grandi hanno perso brutalmente, ma sono arrivate a giocarsela.
Da un punto di vista razionale, non è escluso che si troverà un accordo fra FIFA/UEFA e Super League, in quanto né le prime due trarrebbero beneficio nel vedere drasticamente diminuiti i propri compensi (inevitabile con la defezione di grandi club e grandi calciatori), né le società dissidenti accetterebbero di buon grado l’addio di giovani campioni il cui sogno è una convocazione in nazionale in vista dei campionati europei e mondiali. Se così non fosse, la crepa fra la componente “romantica” e “sportiva” del calcio e quella economica sarebbe irreparabile, col rischio da una parte di perdere tifosi, dall’altra di veder smarriti quei sogni e quelle passioni che rendono il calcio – nonostante i suoi difetti – lo sport più seguito al mondo.
L’alternativa alla Super League probabilmente sarebbe stata il fallimento di società come Juventus, Inter, Barcellona, Real Madrid, uno scenario comunque macabro per il calcio internazionale, ma che forse avrebbe finalmente svelato il marcio di uno sport che, di fatto, ad oggi, è il peggiore di tutti.
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